Aderenza al trattamento farmacologico nella terapia cronica delle malattie cardiovascolari

Facciamo il punto
A cura di: Prof. Massimo Volpe
Aderenza al trattamento farmacologico nella terapia cronica delle malattie cardiovascolari

L’importanza dell’aderenza terapeutica nel trattamento delle malattie cardiovascolari.

Negli ultimi decenni, le malattie non trasmissibili hanno superato quelle trasmissibili come principale causa di morte a livello mondiale. In questo scenario, le malattie cardiovascolari (MCV) occupano una posizione di primo piano, dal momento che rappresentano la causa principale di morte, ospedalizzazione, disabilità, oltre a determinare un importante carico di malattia. Pertanto, gli interventi terapeutici volti a controllare i principali fattori di rischio e patogenetici della MCV rivestono fondamentale importanza, sia per la prevenzione degli eventi acuti che per il controllo delle condizioni croniche che presentano un trend in continua crescita.

La terapia farmacologica con farmaci antiipertensivi, ipocolesterolemizzanti ed antiaggreganti piastrinici rappresenta oggi un caposaldo nelle strategie di prevenzione primaria e secondaria delle MCV, soprattutto in relazione al ruolo di “disease-modifiers” e “life-savers” di questi interventi terapeutici.

Il ruolo centrale di questi farmaci nella terapia delle MCV è sostenuto da chiare e robuste evidenze derivate da molteplici vasti trial condotti negli ultimi 30 anni, utilizzando diverse molecole originali.

Proprio alla luce di queste considerazioni, una rigorosa aderenza alla terapia cronica con questi farmaci oltre che con altre classi di farmaci cardiovascolari (come i farmaci anticoagulanti o quelli antidiabetici) costituisce un principio fondamentale di tutte le strategie terapeutiche. Un’affermazione che sottolinea la centralità dell’aderenza terapeutica che fu fatta dal U.S. General Surgeon: “La peggiore terapia è quella che, sebbene efficace, non viene assunta dai pazienti”.

Il semplice aumento dell’aderenza dei pazienti alla terapia prescritta, che di per sé può comportare un inevitabile aumento dei costi legati alla terapia farmacologica, conferisce un enorme miglioramento dello stato di salute, riducendo in realtà fortemente i costi sanitari complessivi. Nella relazione del 2003 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) affermò infatti che “aumentare l’efficacia di aderenza alla terapia potrebbe avere un impatto molto maggiore sulla salute della popolazione rispetto a qualsiasi miglioramento medico specifico”. La scarsa aderenza alla terapia, al contrario, potrebbe essere responsabile di circa 200.000 morti all’anno in Europa e si stima che possa comportare costi attorno ai 125 miliardi di euro/anno in Europa e 300 miliardi di dollari/anno negli Stati Uniti.

Cosa si intende per Aderenza Terapeutica?

Con il termine “aderenza” ci si riferisce ad un comportamento attraverso il quale i pazienti rispettano tutte le indicazioni ricevute ed assumono i farmaci secondo le modalità previste dalla prescrizione del medico. Il termine “aderenza” ha generalmente sostituito il termine “compliance” nella letteratura medica contemporanea. Il paziente può essere “compliante” (cioè disponibile) alle indicazioni ed alle prescrizioni, ma soltanto la misura dell’effettiva aderenza terapeutica riflette l’efficace interazione tra medico e paziente finalizzata a raggiungere gli obiettivi terapeutici prefissati. Questa modifica, solo apparentemente lessicale, riflette una più moderna concezione del rapporto medico-paziente in cui quest’ultimo collabora e partecipa all’attuazione del progetto terapeutico, piuttosto che recepire passivamente le istruzioni dei medici. Nello specifico si può definire aderenza, e quindi misurarla, come la percentuale di pillole (o altre forme di somministrazione della terapia) che il paziente assume secondo le modalità prescritte ed ai dosaggi indicati. Per convenzione, una soglia minima dell’80% configura un’aderenza adeguata alla prescrizione di farmaci cardiovascolari. Un’altra non meno importante connotazione dell’aderenza prende in considerazione l’arco temporale durante il quale il paziente assume il farmaco come prescritto, anche se in modo intermittente, evitando di interromperlo prematuramente o in modo permanente. I pazienti sono classificati come non aderenti se interrompono il farmaco prescritto prima di un certo limite temporale. Il termine “persistenza” nel trattamento cronico si riferisce proprio a questa connotazione dell’aderenza terapeutica (“stay on therapy”). Per “non aderenza primaria” si intende invece una situazione in cui il paziente sospende l’assunzione di un farmaco prima ancora di esaurire la prima prescrizione, o addirittura prima ancora di iniziarla.

La soglia ottimale di aderenza può variare tra i diversi farmaci cardiovascolari in relazione alle proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche, ma soprattutto agli obiettivi terapeutici e quindi in relazione a certe indicazioni. Ad esempio, in relazione all’uso di farmaci antiaggreganti piastrinici dopo una procedura di “stenting” coronarico, la soglia ottimale di aderenza deve necessariamente essere considerata più alta e dovrebbe raggiungere il 100%. Stessa considerazione può essere fatta per altre classi di farmaci salvavita, come ad esempio gli anticoagulanti orali diretti nella prevenzione di manifestazioni tromboemboliche. In ogni caso, l’importanza clinica di un’aderenza ottimale al trattamento delle MCV è sempre molto alta, in considerazione del rischio, anche a breve termine, di condizioni come valori pressori elevati non controllati o livelli di colesterolemia alti in presenza di cardiopatia ischemica o ancor più a seguito di un evento acuto. In una metanalisi di 20 studi osservazionali che hanno coinvolto 376.162 pazienti, la prevalenza di inadeguata aderenza era del 43%. Nei pazienti con malattia coronarica documentata, i ricercatori della Duke University hanno dimostrato che l’uso costante di alcuni presidi farmacologici di primaria importanza come l’acido acetilsalicilico corrispondeva al 71%, mentre per i beta-bloccanti era soltanto al 46% e per le statine del 44%, mentre, addirittura, rispetto a tutte e tre le terapie in associazione, l’impiego raggiungeva soltanto il 21% rispetto alla prescrizione (Figura 1). Il tasso di adeguata aderenza si riduce ancor di più nell’ambito della prevenzione primaria o in condizioni croniche che determinano trattamenti molto protratti o perenni come l’ipertensione arteriosa o le dislipidemie (soprattutto l’ipercolesterolemia). L’aderenza è infatti generalmente più elevata tra i pazienti che sono stati colpiti da eventi acuti, come un infarto del miocardio o un ictus rispetto a quelli affetti da patologie croniche anche se i dati rilevati nel registro EUROASPIRE V rivelano una persistente, insufficiente aderenza alla terapia anche nei pazienti con profilo di rischio più alto. La “persistenza”, un concetto che esprime il mantenimento dell’aderenza nel tempo, tra i pazienti al trattamento farmacologico nell’ipertensione arteriosa o con patologie croniche è francamente disarmante, riducendosi drammaticamente di circa il 50% dopo appena 6 mesi di terapia. Un momento critico è spesso rappresentato dalla dimissione dall’ospedale, che, di fatto, riflette una transizione della gestione terapeutica del paziente da un regime “sorvegliato” ad un processo legato e condizionato da convinzioni personali, stile di vita, livello culturale, presenza o meno di valido supporto domiciliare e familiare, nonché responsabilità fondamentalmente autonoma del paziente.

La scarsa aderenza ai farmaci è purtroppo associata ad importanti conseguenze sfavorevoli se non fortemente negative sulla salute. Infatti, in primo luogo, ne deriva inevitabilmente uno scarso controllo dei fattori di rischio cardiovascolare come, ad esempio, il controllo adeguato e costante di elevati valori pressori e dei livelli di colesterolemia. Anche la mortalità e gli eventi cardiovascolari maggiori risultano esponenzialmente elevati nei pazienti con scarsa aderenza (Figura 2). Purtroppo, si tratta spesso di un fenomeno subdolo, scarsamente identificabile e talora persino mascherato, o del tutto occultato, dal paziente stesso. I medici sono spesso inconsapevoli del fatto che la scarsa aderenza possa rappresentare il motivo principale degli insoddisfacenti risultati terapeutici ottenuti in alcuni dei loro pazienti, persino quando questi insuccessi sono del tutto inattesi. La sottovalutazione clinica di una scarsa aderenza ed il suo mancato riconoscimento possono spesso tradursi in un’inutile intensificazione del trattamento con la potenziale comparsa di effetti avversi e l’innesco di un “circolo vizioso” che di fatto può persino esacerbare la mancata aderenza.

Come si può verificare ed implementare l’aderenza terapeutica?

La stima dell’aderenza terapeutica è di difficile identificazione nella pratica clinica. Essa si può realizzare attraverso metodi diretti, che comprendono una improbabile e poco praticabile osservazione diretta dell’assunzione del farmaco (a questo può contribuire un familiare o un “care giver”), la misura della concentrazione del farmaco o di un metabolita nel sangue o nelle urine, che di fatto non trova oggi collocazione nella pratica clinica, se non nei trial controllati. Questi metodi sono sostanzialmente poco praticabili sia su larga scala sia su base individuale, oltre ad essere costosi e limitati dalla capacità di laboratori locali. D’altra parte, l’impiego di metodi indiretti come pillola-reminder (App), questionari, contapillole, la misurazione periodica dei marcatori biologici (es., i livelli di colesterolo LDL) o la compilazione di un diario di assunzione dei farmaci, che sono decisamente utili e molto più praticabili oltre che meno onerosi, in alcuni casi può risentire della mistificazione volontaria o meno da parte del paziente. Approcci recenti hanno anche tentato di identificare profili psicologici specifici che possono predisporre alla scarsa aderenza, al di là della necessaria valutazione da parte del medico del profilo personale, del livello socio-culturale, della volontà di collaborare, degli impegni lavorativi o familiari del paziente. Il medico deve contribuire, per quanto possibile, ad esercitare un ruolo proattivo per superare questi problemi anche adattando gli schemi terapeutici, soprattutto semplificandoli nel “timing” nel numero di somministrazioni. Da questo punto di vista, il superamento della possibile inerzia da parte del medico ed un potenziamento della comunicazione e del rapporto fiduciario con il paziente giocano un ruolo critico. Una esauriente spiegazione da parte del medico delle motivazioni e degli obiettivi di ogni terapia costituiscono una notevole incentivazione per il paziente.

I fattori alla base della scarsa aderenza alla terapia sono, molteplici, ma possono essere suddivisi sostanzialmente in quelli di pertinenza del paziente, quelli che riguardano il medico e quelli riconducibili alle caratteristiche del sistema sanitario, delle procedure di rimborso ed infine, quelle riconducibili a fattori ambientali. Del primo gruppo fanno parte la mancanza di sostegno sociale, le remore e i pregiudizi circa il ricorso ai farmaci ed i loro potenziali effetti avversi, le limitazioni culturali e psicologico/cognitive, la scarsa conoscenza della propria patologia e la presenza di molteplici comorbidità che comportano complesse politerapie. Le responsabilità del medico sono più frequentemente riconducibili alla scarsa comunicazione con i pazienti, soprattutto del poco tempo/visita dedicato al colloquio e al ricorso a schemi terapeutici molto complessi. Il sistema sanitario può influenzare l’aderenza soprattutto tramite la disponibilità ed i sistemi di rimborso, il prezzo del farmaco e l’accesso al follow-up da parte del paziente, specialmente quando questo richiede accesso ripetuto alle strutture ospedaliere. Anche il fatto che le confezioni e la presentazione delle pillole cambino frequentemente può esercitare un ruolo importante. I fattori ambientali si riferiscono alle condizioni più disparate, come ad esempio, l’accessibilità alle nuove prescrizioni (pensiamo, ad esempio, ai Piani terapeutici) o al “refilling” dei farmaci o, all’opposto, la circolazione incontrollata di notizie di stampa che possono sollevare preoccupazioni talora ingiustificate circa specifici farmaci e la loro sicurezza. Classici esempi recenti sono una presunta elevata tossicità delle statine (effetto “nocebo”) o una presunta maggiore gastrolesività legata all’impiego dell’acido acetilsalicilico, mai di fatto confermate dalla letteratura scientifica.

I fattori che possono predire l’aderenza ad uno schema terapeutico riguardano caratteristiche del paziente come l’età, il sesso, o il livello socio-economico. Per quanto riguarda l’aderenza ai farmaci cardiovascolari, è stata individuata un’associazione “U-shaped” con l’età. I pazienti ≥70 anni e <50 anni presentano infatti una tendenza ad avere aderenza inferiore ai pazienti di mezza età (50-69 anni). Inoltre, l’aderenza è generalmente più bassa nelle donne, nei pazienti con i redditi più bassi o con livello culturale inferiore, in quelli con un maggior numero di prescrizioni e comorbilità.

Numerosi sono i possibili interventi proposti per migliorare l’aderenza alla terapia. La maggior parte di questi interventi è diretto al superamento dei fattori riconducibili al paziente o al medico prescrittore, o ancor di più alla loro interazione. Anche il tempo di durata della visita è un fattore importante e spesso visite troppo brevi non sono sufficienti per motivare il paziente a cooperare nella terapia o a guadagnarne una piena fiducia. Un maggior numero di colloqui motivazionali, l’uso di appositi promemoria, tramite chiamate telefoniche, sms, o specifiche App o di sistemi di controllo telematici, l’utilizzo di semplici diari, l’educazione circa l’utilità dei farmaci, i potenziali danni derivanti da una scarsa o incostante assunzione ed una descrizione ragionevole dei loro possibili effetti avversi, la conoscenza della propria malattia ed una maggiore attenzione allo stato di depressione sono solo alcuni degli interventi che si sono dimostrati efficaci (Tabella 1).

Il fattore che forse ha l’influenza maggiore su aderenza e persistenza è lo sviluppo di una consapevolezza da parte del paziente della necessità e dell’efficacia della terapia assunta: il raggiungimento degli obiettivi terapeutici (es. un controllo soddisfacente dei valori pressori o di colesterolemia) e il miglioramento della sintomatologia motivano fortemente il paziente ad assumere i farmaci prescritti e ne fanno un vero e proprio partner del progetto terapeutico. Se il paziente conosce l’obiettivo di una terapia, lo condivide e partecipa a raggiungerlo, le garanzie di una buona aderenza terapeutica sono molto più alte. Altro fattore di fondamentale importanza è la semplificazione del regime terapeutico, tramite la riduzione della frequenza e del numero totale di pillole che si deve assumere ogni giorno. Questo tipo di interventi può migliorare decisamente l’aderenza ai farmaci e favorisce il raggiungimento di obiettivi terapeutici maggiori. In questa ottica, la semplificazione delle terapie farmacologiche cardiovascolari, ove possibile, mediante la combinazione di due o più classi di farmaci (es. farmaci antipertensivi, antipiastrinici, ecc.) e persino di combinazioni ibride “multitarget”, come ad esempio antipertensivi ed ipocolesterolemizzanti in un’unica pillola (single pill combination) deve essere presa sempre in considerazione e di fatto rappresenta oggi un importante progresso delle tecniche farmaceutiche per una più efficiente e meglio recepita azione di contrasto allo sviluppo ed alla progressione delle malattie cardiovascolari (Figura 2). Anche l’adattamento degli schemi di terapia allo stile di vita, alle abitudini ed ai ritmi di lavoro del paziente costituisce un ingrediente importante per ottenere una migliore aderenza

Nello studio UMPIRE (Use of Multidrug Pill to Reduce Cardiovascular Events), studio randomizzato disegnato per valutare nel lungo termine l’efficacia di una strategia “fixed-dose combination” nel migliorare l’aderenza dei pazienti ai farmaci nella prevenzione cardiovascolare, l’aderenza nel gruppo “polipillola” era dell’85%, rispetto al 60% rilevato nel gruppo che seguiva uno standard di cura con una differenza altamente significativa.


  • Informazione estesa del paziente circa la patologia da cui è affetto e la necessità di assumere farmaci.
  • Il paziente non deve decidere di modificare/interrompere la terapia senza consultare il medico.
  • Il paziente deve informare il medico circa gli eventuali effetti collaterali dei farmaci.
  • Lo schema terapeutico deve essere concordato da medico e paziente anche sulla base delle esigenze lavorative e sociali di quest’ultimo.
  • Lo stato psicologico del paziente deve essere preso in considerazione nella scelta della terapia.
  • Deve essere limitato il numero di modificazioni del piano terapeutico e l’introduzione di farmaci sconosciuti al paziente.
  • È utile coinvolgere l’entourage del paziente e le altre figure professionali (farmacista, infermiere, ecc.) nel processo terapeutico.
  • È utile l’uso di reminder da parte del medico, del farmacista o del paziente stesso.
  • Lo schema terapeutico deve essere semplificato quanto più
  • Lo schema terapeutico deve essere semplificato quanto più possibile.

Tabella 1. Possibili misure volte al miglioramento del rapporto medico paziente al fine di aumentare l’aderenza alla terapia.9

Figura 1

Figura 1. L’aderenza alla terapia antischemica nel tempo. Riadattata da Ho et al.10

Figura 2

Figura 2. La mortalità e gli eventi cardiovascolari maggiori aumentano nei pazienti con scarsa aderenza alla terapia. IMA, infarto miocardico acuto Riadattata da Degli Esposti et al.15


Con il contributo non condizionante di:

Bayer

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