Il diabete mellito (DM) è una patologia cronica dovuta alla carenza di azione dell’insulina.
Questa condizione può derivare o da una carenza di produzione o da un cattivo funzionamento della stessa (insulino-resistenza) che porta pertanto ad elevati livelli plasmatici di glucosio. Questa condizione è spesso responsabile dello sviluppo di complicanze micro e macro-vascolari. Il meccanismo tramite il quale l’iperglicemia conduce nel tempo allo sviluppo di complicanze clinicamente conclamate è la disfunzione endoteliale e il conseguente rimodellamento vascolare (aumento dello spessore intima-media) che, se da una parte può portare, attraverso un danno dei piccoli vasi, a retinopatia, nefropatia e neuropatia periferica, dall’altro, in associazione ai classici fattori di rischio cardiovascolare (fumo, età, Body Mass Index, dislipidemia, etc.), aumenta in maniera significativa il rischio di complicanze ed eventi cardiovascolari. Una metanalisi su diversi studi prospettici ha mostrato come i pazienti affetti da diabete mellito abbiano un rischio di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori (angina, infarto miocardico acuto, ictus, vasculopatia periferica) due volte superiore rispetto alla popolazione generale, indipendentemente dai restanti fattori di rischio. Tale rischio è inoltre maggiore nelle donne, nei pazienti con diabete di lunga durata e aumenta significativamente in presenza di danno d’organo, come malattia renale o proteinuria.[1] Tale rischio può essere parzialmente ridotto con un attento controllo dei fattori di rischio cardiovascolari e con un attento controllo della glicemia nel tempo.
Le sindromi coronariche acute (SCA) includono angina instabile, infarto miocardico senza sopraslivellamento del tratto ST (NSTEMI) ed infarto miocardico con sopraslivellamento del tratto ST (STEMI). È importante sottolineare come nel paziente diabetico la presenza di SCA possa avere meccanismi fisiopatologici, presentazione clinica e prognosi parzialmente differenti rispetto alla popolazione generale.
Il diabete è associato ad un’aterosclerosi precoce, diffusa e a rapida evoluzione. Nel corso degli anni l’iperglicemia si associa ad un aumento di specie reattive dell’ossigeno (ROS) a livello delle cellule endoteliali e allo sviluppo di uno stato pro-infiammatorio. Pertanto avremo una placca ateromasica più ricca in lipidi, mediatori dell’infiammazione e materiale trombotico, rispetto ai pazienti non affetti da DM. Tutto ciò, associato ad un’alterazione dei meccanismi di riparazione endoteliale, si traduce in una maggiore instabilità di placca, e maggiore incidenza di eventi acuti.
Il dolore toracico oppressivo è sicuramente il sintomo predominante nella cardiopatia ischemica, anche se non è rara una presentazione atipica della sintomatologia o la completa assenza di sintomi, anche in presenza di severa malattia coronarica.[2] Le evidenze mostrano come l’infarto o l’ischemia miocardica silente sia più frequente nei pazienti diabetici, probabilmente a causa di una neuropatia autonomica e sensitiva spesso presente in questa popolazione.[3] Inoltre, principalmente a causa di un ritardo nella diagnosi, l’ischemia miocardica silente si associa ad una prognosi peggiore.[4]Altro aspetto fondamentale è la presenza spesso di importanti comorbidità in questa popolazione di pazienti, come insufficienza renale e malattia cerebrovascolare che influenzano negativamente gli esiti dopo rivascolarizzazione coronarica. Si è visto infatti come nel paziente diabetico vi sia un aumento del tasso di mortalità post infarto del miocardio, sia precoce (entro 30 giorni) che tardivo (entro 1 anno)[5]. Il diabete si associa inoltre ad una più rapida evoluzione verso un quadro di scompenso cardiaco sia con funzione sistolica ridotta che preservata.
In considerazione dell’elevato tasso di eventi cardiovascolari e di mortalità, diventa necessario, anche in assenza di malattia coronarica nota, oltre ad un buon controllo glicemico, una corretta stratificazione del rischio e un severo controllo dei principali fattori di rischio cardiovascolari, soprattutto nei pazienti con età superiore ai 40 anni. [6]
Nei maggiori trial sono scarsi i dati disponibili sui pazienti affetti da DM di tipo 1 per i quali attualmente valgono le stesse indicazioni utilizzate per il DM di tipo 2, diventa necessario però un’attenta valutazione del rapporto rischi/benefici da parte del clinico.
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