La fibrillazione atriale (FA) è una tachiaritmia sopraventricolare caratterizzata dall’attivazione elettrica caotica atriale e dalla conseguente perdita della sua funzione contrattile. La fibrillazione atriale è la più comune aritmia cardiaca sostenuta e la sua incidenza è direttamente proporzionale all’età: il rischio lifetime di sviluppare questa aritmia è del 33% ed è maggiore negli individui di sesso maschile.
Le ultime line guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) presentano un approccio terapeutico olistico dei pazienti con FA o “Atrial fibrillation Better Care” (ABC), dove “A” sta per “Avoid stroke” o riduzione del rischio embolico, “B” per “Better symptom management” e integra i concetti di rate e rythm control, mentre “C” indica “Cardiovascular and Comorbidity optimization” e si riferisce all’identificazione e alla gestione delle patologie concomitanti, dei fattori di rischio cardiometabolici e di quegli elementi dello stile di vita che contribuiscono allo sviluppo della patologia. In questo articolo concentreremo la nostra attenzione sugli aspetti di prevenzione del rischio embolico (A) e sulla gestione delle comorbidità (C).
Un paziente su cinque con ictus ischemico è affetto da FA, che rappresenta la principale causa di ischemia cerebrale. Complessivamente la presenza di fibrillazione atriale aumenta di cinque volte il rischio di ictus ischemico, ma questo incremento non è omogeneo nella popolazione affetta e dipende dalla presenza di specifici fattori di rischio. L’attività elettrica atriale irregolare porta ad una stasi ematica, principalmente a livello dell’auricola sinistra, recesso anatomico dove possono sedimentarsi formazioni trombotiche, che vengono poi mobilizzate alla ripresa del ritmo sinusale e della sistole atriale. Ad oggi, sebbene siano numerosi gli score disponibili per la valutazione specifica del rischio di ictus in un paziente affetto da FA, il più impiegato e standardizzato è sicuramente il CHA2DS2-VASc score. In caso di punteggio pari o superiore a 2 nel sesso maschile e pari o superiore a 3 nel sesso femminile è raccomandata la prosecuzione della terapia anticoagulante a vita, oltre un mese dalla diagnosi, dopo aver opportunamente valutato e messo a bilancio il rischio trombo-embolico con quello emorragico del paziente. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali di nuova generazione (DOAC) per la maggior parte dei pazienti, salvo in presenza di specifiche controindicazioni, di protesi valvolari meccaniche o in presenza di stenosi mitralica almeno moderata: in questi scenari clinici i DOAC non sono ancora stati confrontati in trial clinici randomizzati con gli antagonisti della vitamina K (dicumarolici), che rappresentano tutt’ora il gold standard.
Molteplici sono i fattori che concorrono nel tempo al comparire e al perpetuarsi di un’attività elettrica atriale fibrillatoria. Gran parte di questi sono trattabili e pertanto possiamo considerare la fibrillazione atriale come una patologia prevenibile. Allo stesso tempo la gestione di queste comorbidità e condizioni sottostanti migliora il controllo del ritmo nei pazienti con fibrillazione atriale persistente [1]. La fibrillazione atriale è associata ai classici fattori di rischio cardiovascolare quali l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia, il fumo, il diabete mellito e l’insufficienza renale cronica. Lo sviluppo della cardiomiopatia atriale, che è il substrato anatomico alla comparsa e soprattutto al perdurare dell’aritmia, è correlata a numerose patologie cardiache, quali lo scompenso cardiaco, la cardiopatia ischemica e le valvulopatie, soprattutto mitralica. In aggiunta a questi determinanti della patogenesi, esistono numerosi fattori che promuovono lo sviluppo dell’aritmia e che possono diventare bersaglio di opportuni interventi terapeutici nell’ottica di un trattamento delle condizioni a monte (o upstream-non-antiarrhythmic therapy).
La sindrome delle apnee ostruttive del sonno ad esempio, indipendentemente dall’ipertensione arteriosa ad essa correlata, rappresenta un importante fattore di rischio trattabile della fibrillazione atriale. Nonostante questo, il trial clinico A3 (atrial fibrillation, apnea, airway pressure) [2] ha dimostrato che il trattamento con ventilazione a pressione positiva continua (CPAP) non determina in questi pazienti una riduzione nel burden dell’aritmia.
L’obesità correla in modo significativo con lo sviluppo e la progressione della fibrillazione atriale. Lo studio REVERSE-AF [3] ha dimostrato la natura dinamica della relazione tra peso corporeo e fibrillazione atriale. In individui sovrappeso e obesi con FA sintomatica, la persistenza dell’eccesso ponderale è associata con una progressione della malattia nello spettro temporale che va dalla FA parossistica alla permanente, mentre una calo progressivo del peso corporeo è associato con l’inversione della storia naturale della malattia. In aggiunta, uno studio recentemente pubblicato [4] correla la riduzione del peso corporeo con un rimodellamento inverso della cardiomiopatia atriale, supportando ancor di più questa relazione bidirezionale.
L’inattività fisica si associa all’obesità, alla sindrome metabolica e all’ipertensione ed è intuitivo che possa rappresentare una condizione concomitante allo sviluppo e alla progressione della fibrillazione atriale. D’altro canto, anche l’attività fisica estensiva, tipica di alcuni sport quali lo sci di fondo, il triathlon o il ciclismo, si correla in modo significativo con la comparsa di fibrillazione atriale, tipicamente parossistica. La sovradistensione delle camere atriali, necessaria per accettare l’elevata portata cardiaca di un cuore d’atleta, l’ipertono adrenergico e le alterazione idro-elettrolitiche che possono svilupparsi dopo ore di allenamento sono triggers ideali per lo scatenarsi dell’aritmia. L’attività fisica e la fibrillazione atriale descrivono dunque una funzione non lineare, bensì parabolica, con la massima incidenza agli estremi [5].
L’assunzione di alcolici in minime quantità non è associata allo sviluppo di fibrillazione atriale. Esistono delle differenze di genere nell’associazione tra l’assunzione di alcolici in quantità moderate e l’insorgenza dell’aritmia, con gli individui di sesso maschile che sembrano essere maggiormente predisposti, mentre l’assunzione di alcolici in grandi quantità è associata ad un rischio elevato di comparsa della FA a prescindere dal sesso [6]. L’astinenza nei bevitori regolari riduce la ricorrenza dell’aritmia [7].
Sulla relazione tra consumo di caffeina e fibrillazione atriale si è detto tutto e il contrario di tutto. L’ultima parola l’hanno avuta (forse) Min Cheng e colleghi, con la pubblicazione di una metanalisi di sei studi prospettici e oltre 200.000 pazienti [8], secondo la quale è improbabile che l’assunzione di caffè possa causare o contribuire allo sviluppo di FA. Anzi, un consumo abituale della bevanda potrebbe addirittura ridurre il rischio dell’insorgenza dell’aritmia.
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